Nato nel 1960, , laureato in Lettere e Filosofia all’Università di Edimburgo, si è sempre dedicato all’alpinismo, lasciando un pochino da parte la sua laurea, viveva molto tempo a Chamonix per poter arrampica sul Monte Bianco, dove una volta in modo molto fortuito, fu vittima di una valanga, che lo trasporto a valle per diverse centinaia di metri, ma il cosa volle che durante la caduta la massa di neve lo ha sballottato dappertutto, ma quando si è placata la sua forza joe era vicino alla superficie e ci mise poco a uscire dalla massa soffocante.
Dopo quell’incidente e molti altri, di minore importanza…. una volta restò appeso alla parete con un compagno, durante la notte perse uno scarpone sulla cengia dove si erano fermati a dormire, e dovette intervenire il soccorso Alpino di Chamonix per recuperarli…
La sua fama internazionale credo la raggiunse nel Giugno 1985, quando con Simon Yates organizzarono una spedizione sulle Ande peruviane e cercarono con successo di raggiungere la vetta del Siula Grande (6536) per la parete Ovest, una parete inviolata.
Tutto filò liscio finchè durante la discesa dal versante opposto successe l’imprevedibile Joe Simpson per una manovra affrettata e brusca si ruppe una gamba, in seguito all’instabilità della stessa, cadde dalla montagna, i due restarono attaccati e Joe penzolava nel vuoto con tutto il suo peso… il suo compagno dopo aver lottato strenuamente per recuperarlo, stava scivolando nel baratro insieme a lui e fece la cosa più corretta in quei casi…. TAGLIò la corda e vide sparire il suo Amico giù per un profondo crepaccio…. Simon non si dava pace, ma era l’unica cosa che avesse potuto fare… era disperato.
Tutto il giorno e il giorno successivo lo cercò, cercando di capire se potesse essere ancora vivo, ferito, ma ancora vivo… nessuna risposta.
Il crepaccio era troppo fondo perché i due si potessero sentire.
Nel frattempo Joe era caduto su un ponte di ghiaccio ed era anch’egli disperato per la situazione, si trovava ferito in modo grave per le due cadute, una gamba rotta malamente, su un ponte di ghiaccio, lontano da ogni essere vivente che potesse sentirlo, su una montagna che avevano scalato loro per primi, per cui nessuno avrebbe potuto aiutarli… con il suo compagno che lo stava cercando inutilmente, i due si chiamavano ripetutamente senza successo, avrebbe dovuto farcela con le sue sole forze… arrivò alla disperazione di lanciarsi dal ponte di ghiaccio nel buio del crepaccio, per trovare la morte… ma non era la sua ora e atterrò sul fondo dello stesso.
SI trascinò sul fondo del crepaccio… era l’unica cosa che potesse fare, cercando una via di uscita…fuori dal crepaccio, che fortunatamente terminava quasi pianeggiante e riuscì ad uscire all’aria aperta.
Ok era fuori, ma si trovava ancora in cima ad una montagna che nessuno conosceva, e soprattutto nessuno sapeva che era li.
Lo sconforto lo avvolse, ma con la sua forza di volontà riuscì metro dopo metro, crepaccio dopo crepaccio ad avanzare lentamente, strisciando, l’unico aiuto erano le sue piccozze che usava come attrezzi per trainarsi.
La sua situazione si faceva sempre più grave… ed era grave veramente, erano 3 giorni che non assumeva nessun liquido, ed era tremendamente disidratato.
Arrivò ad un rigagnolo d’acqua dopo infinite peripezie, dopo aver lasciato lo zaino e le piccozze lungo il cammino arrivò arrancando a bere… erano passati già 4 giorni di cui 2 notti al gelo dei 6000 metri… un nuovo terrore assalì Joe, tutti lo credevano morto in fondo al crepaccio, nessuno sarebbe venuto a cercarlo e la spedizione era alla fine la vetta era stata conquistata… a caro prezzo, e giù al cmapo base non avrebbero atteso che lui tornasse, sarebbero scesi dalla montagna a momenti, ma senza perdersi d’animo cercò di recuperare le forze a scesae ancora… non era distante, ma la sua distanza era enorme, visto che non deambulava, strisciava come un vermicello e per di più era gravemente ferito alla gamba, che ormai era diventata un tubo informe della stessa dimensione dalla caviglia alla coscia era tutta larga uguale… e per di più non aveva neanche una piccozza, un bastone per aiutarsi.
Al campo Simon e il terzo della spedizione ormai disperati per la perdita di Joe avevano bruciato i suoi vestiti per avere meno materiale da portare via e si stavano accingendo a scendere dalla montagna.
La notte successiva, Joe strisciando si accorse dell’odore acre che aveva la terra in quel punto, si rese conto che quello su cui stava arrancando era un terreno cosparso di escrementi, la latrina del campo, questa disgustosa gioia lo pervase e si mise ad urlare talmente forte che coprì iil vento che si stava preparando ad una bufera… i suoi compagni increduli di quello che stavano sentendo uscirono con la torcia e lo trovarono.
Festeggiamenti, lacrime, spiegazioni, scuse andarono avanti per tutta la notte, la sua disidratazione apparve grave immediatamente, lo rincuorarono con the caldo e il giorno seguente scesero dalla montagna con i portatori che rano venuti a recuperarli e gli animali da soma.
Joe venne ricoverato in ospedale il prima possibile dove gli curarono la gambe e soprattutto il suo stato di disidratazione.
(Questo è in sintesi il libro La morte Sostesa, che merita di essere letto)
Ottimo scrittore che riesce a far immedesimare il lettore nella storia raccontata con minuziosa particolarità.
Libro che ha vinto il Boardman Tasken Price 1988, il NCR Book Award for Non Fiction, il Literaturpreis des Deutschen Alpenvereins 1990.
Joe Simpson
Compì in tutta la sua carriera ha arrampicato su moltissime montagne europee e extraeuropee, compiendo le prime ascensioni sulle Ande e sul Karakorum. Dopo l’incidente descritto nel suo primo libro autobiografico La morte sospesa, ha ripreso l’attività in montagna facendo anche discesa col parapendio. Nel 1990, con tre compagni, ha raggiunto la vetta dell’Ama Dablam; nel 1991 ha compiuto la prima ascensione della parete Est del Pachermo in Nepal. Attivista di Greenpeace, ha compiuto spettacolari scalate di monumenti urbani per attirare l’attenzione del pubblico sui problemi dell’ambiente.
La morte sospesa, Vivalda, 1992
Questo gioco di fantasmi, Storie vere di un sopravvissuto, Vivalda, 1994
Ombre sul ghiacciaio. Drammi e miserie in alta quota, Centro Documentazione Alpina, 1999
Il richiamo del silenzio, Mondadori, 2003
Per chi fosse interessato a leggere come scrive Joe Sipson ho reperito su internet questo scritto trappo appunto da “La morte sospesa”, da cui potete vedere con quale descrizione racconta i suoi stati d’animo nel momenti successivi alla caduta, le due versioni dei fatti, viste dai due capi della corda… Joe da una parte e Simon dall’altra…
Il dramma di Simon:
Tirarlo su non potevo. Il buco della sosta era giù mezzo sfondato. Si disintegrava a poco a poco sotto la pressione delle cosce. In breve non sarei più riuscito ad oppormi alla forza che mi tirava giù. Finora avevamo incontrato solo salti brevi, quindici metri al massimo. Sperai che questo non fosse diverso dagli altri. Era l'unica cosa che potessi fare.
Ma continuavo a dare corda e Joe era sempre appeso. Dove diavolo era finito?
Guardai la matassa della corda restante. Mancavano pochi metri al nodo. Cominciai a imprecare, quasi potessi costringerlo così ad aggrapparsi da qualche parte. A circa tre metri dal nodo, bloccai la corda. Il peso non era diminuito.
Pestando i piedi, cercai di rendere la fossa più stabile, le pareti più compatte. Non serviva a nulla. Avrebbe ceduto tra breve. Mi sentii agghiacciare. Un'ondata gelida mi colpì: un'altra slavina. Barcollai, l'urto mi spostò avanti con il busto e la neve riempì la fossa alle mie spalle. Dio! Mi portava via!
Poi cessò, com'era cominciata. Lasciai filare un altro tratto di corda, disperatamente cercando una soluzione. Tenere una corda con una mano sola e usare l'altra per far passare il nodo? Mi guardai una mano. Non riuscivo neppure più a chiuderla a pugno. Sganciare semplicemente il discensore e calarlo a forza di braccia, aiutandomi con la corda arrotolata attorno alla gamba? Impossibile. Senza discensore non sarei mai riascito a tenerlo. La corda sarebbe filata via tutta, cinquanta metri, poi lo strappo finale avrebbe strappato via anche me.
Era passata quasi un'ora, ormai. Tremavo dal freddo. Le mani cominciavano a mollare la presa. Sentii la corda sfuggirmi, il nodo venne a premere contro la mano. Non ce la faccio più, pensai atterrito. Dimenticai tutto, le slavine, il vento, il freddo. Stavo per essere trascinato via. Avvertii la neve, sotto il mio corpo, cedere leggermente, scorrere via in piccoli rivoli oltre i miei piedi. Scivolai giù di un paio di centimetri. Poi mi arrestai, i piedi affondati nel pendio con una forza disperata. Dio! Dio! Devo fare qualcosa!
Il coltello! Il pensiero affiorò dal nulla. Il coltello! Presto! Il coltello!
Il coltello era nello zaino. Ci volle un'eternità per riuscire a liberare prima un braccio, poi l'altro dagli spallacci tenendo il discensore bloccato con una mano sola. Per sicurezza passai la corda libera attorno alla gamba. Tastando con la sinistra nella tasca dello zaino, riconobbi al tatto la forma dura, liscia del manico. Altra neve scivolò via. Non lasciarsi prendere dal panico!
Il guanto gelato non faceva presa. Rischiai di lasciar cadere il coltello. Allora lo posai in grembo, strappai via il guanto con i denti. La decisione era presa. Non potevo fare altro, non avevo scelta. Le labbra si incollarono al metallo quando feci scattare la lama con i denti.
Mi piegai, allungando il braccio verso la corda. Un pensiero balenò confuso: l'altra corda! Che non si impigli! Lanciai un'occhiata alla matassa ammucchiata ai miei piedi, liberai la gamba dalla corda attorcigliata, spostai la corda libera di lato. Poi mi piegai di nuovo e il coltello toccò le fibre di nylon.
Non ci fu bisogno di premere. La corda esplose al contatto della lama. Ricaddi indietro, libero dal peso che mi tirava verso il basso. Tremavo.
Restai immobile per un pezzo, il respiro affannoso, un martellio furibondo nelle tempie. Un torrente di neve rovinò dall'alto, investendo il viso, il petto; si infilò nel collo, sotto i lembi della giacca; passò oltre, in corsa tumultuosa giù per la parete dietro alla corda tagliata, dietro a Joe.
Ero vivo! Quest'unico pensiero mi occupava la mente. A Joe, dove fosse, se fosse vivo, non pensavo. Il suo peso non mi gravava più: sparito. Questo contava.
Il resto erano solo il vento, le slavine.
Quando infine mi alzai a sedere, la corda floscia mi cadde in grembo. Un moncone sfilacciato pendeva dalla placchetta del discensore. Joe era sparito.
...e quello di Joe:
Appeso, la testa ciondoloni, attendevo la fine di quell'agonia interminabile. Una spossatezza infinita si era impadronita di me. Purché finisse presto... era una tortura gratuita.
La corda cedette di qualche centimetro. Quanto resisterai ancora, Simon? Quanto tempo prima che tu mi raggiunga? Poco, ormai. Ci fu un altro tremito nella corda. Era così tesa che non poteva sfuggirmi nulla di ciò che accadeva all'altro capo. Ecco, così è la fine! Peccato! Spero che ci trovino. Che sappiano che abbiamo salito la parete ovest. Non voglio scomparire senza lasciar traccia. Se non ci trovano, nessuno saprà mai che ce l'abbiamo fatta...
Una folata mi investì, facendomi lentamente ruotare su me stesso. Guardai giù, il crepaccio.
Enorme, largo almeno sei metri. C'era un salto di forse quindici metri fin laggiù. L'ombra scura, lunga segnava il pendio sotto la base del seracco. Proprio sotto di me il crepaccio era coperto, ma appena più in là spalancava la sua bocca nera. Mi aspettava. Abisso senza fondo, pensai vagamente. No, nessun abisso è senza fondo. Quanto sarà profondo? Cadrò giù, quanto?... fino all'acqua sul fondo? Dio! Fino all'acqua no!
Un altro sussulto, la corda aveva ceduto ancora. Dall'alto, dove la corda segava il bordo del seracco, caddero frammenti di ghiaccio crostoso. Alzai gli occhi. La corda si perdeva nell'oscurità. Il freddo aveva vinto la sua battaglia da un pezzo, braccia e gambe erano completamente insenbibili, ogni cosa s'era fatta lenta, sfocata. I pensieri affioravano come domande vaghe, senza risposta. Sapevo che stavo per morire ed ero rassegnato. Non poteva essere altrimenti. Non provavo angoscia, nè paura. Il freddo aveva offuscato i sensi, cancellato la percezione del dolore. Desideravo soltanto che il sonno venisse, finalmente. Sonno senza sogni. La realta era incubo; vieni, diceva. Era un buco nero, pozzo senza sofferenza, pozzo senza tempo. Come la morte.
La frontale si spense. Il freddo aveva esaurito la pila. In uno squarcio nero sopra di me vidi le stelle. Stelle, o luci nella mia testa? La bufera si era chetata. Era bello vedere le stelle. Provai riconoscenza perché mi era dato rivederle ancora una volta. Come antiche amicizie che non ti abbandonano, le stelle... Parevano lontane, più lontane che mai. Ma vivide, gemme sospese lassù nell’aria. Non fisse, però. Qualcuna si muoveva, palpitava appena, ora sì, ora no... sì, no... mandava scintille luminose fino a me.
Ciò che avevo atteso a lungo, mi colse di sorpresa. Le stelle si spensero e caddi. Come improvvisamente animata di vita propria la corda mi sferzò il viso. Precipitai nel nulla, silenziosamente, interminabilmente, come quando si sogna di cadere...
Veloce, più veloce.., finché lo stomaco si ribellò alla folle accelerazione. Precipitavo, e da sopra, da molto lontano, mi guardavo precipitare e non provavo nulla. Nessun pensiero, nessuna paura. Ecco, questa è la fine, Joe!
Whummfff! Un urto alla schiena interruppe il sogno. La neve mi avviluppò. Sensazione di freddo, di umido sul viso. Perché non mi fermavo? Per un attimo provai un terrore indicibile. Il crepaccio! Ahh... No!
L'accelerazione mi ghermì di nuovo, pietosa. Precipitai, mentre l'urlo si perdeva da qualche parte sopra di me.
Un urto tremendo arrestò la caduta in un' esplosione di lampi di un bianco accecante negli occhi.
Poi, altri lampi. Sentivo il rumore del mio respiro, ma non mi accorgevo di respirare. Mi cadde addosso neve: da una lontananza infinita avvertii il suo tocco lieve, il fruscio del suo scorrere in minuscoli rivi come lungo il corpo di un altro. Dentro la testa qualcosa pulsava, via via più fievole. I lampi si diradarono.
Per un tempo indefinito giacqui quasi privo di sensi, senza rendermi conto di ciò che era accaduto. Mi pareva di essere sospeso in aria, immoto e senza peso. La bocca aperta, gli occhi spalancati nel buio credendo che fossero chiusi, stavo immobile, occupato a registrare tutte le sensazioni, tutti i pulsanti messaggi del corpo, senza far nulla.
Poi sentii che mi mancava il fiato. Un respiro convulso. Nulla, solo una pressione dolorosa al torace. Altri spasmi, senso di soffocamento, aria, aria!
Venne un rumore familiare, un suono sordo di ciottoli sopra una spiaggia. Mi rilassai. Chiusi gli occhi e mi consegnai a grigie ombre confuse. Una fitta mi attraversò il petto, il torace si espanse, il rumore nella testa svanì, mentre un fiotto d'aria fredda irrompeva nei polmoni.
Ero vivo. Fitte lancinanti incendiarono la gamba, malamente piegata sotto di me. Lo strazio portò alla coscienza la sensazione di essere vivo. Perdio!
Non potevo essere morto se sentivo il dolore a quel modo! L'incendio divampava nel ginocchio e io ridevo. Vivo! Sono vivo! Una risata di gioia che superava il dolore, cresceva, rotolava in lacrime ardenti lungo le guance. Non sapevo perché, ma continuavo a ridere. E mentre ridevo, con le lacrime agli occhi, qualcosa dentro di me si sciolse, qualcosa come uno gnocco contorto e chiuso che avevo nei visceri; si liberò, sparì.
Ma che cos'era che aveva arrestato la caduta? Smisi di ridere di colpo, il petto di nuovo oppresso, la stessa tensione di prima che mordeva dentro. Non vedevo nulla. Giacevo su un fianco, stranamente accartocciato. Cautamente sollevai un braccio e lo portai avanti descrivendo un arco. Toccai qualcosa di duro, liscio. Ghiaccio! Era la parete del crepaccio. Continuando l'esplorazione, il braccio incontrò il vuoto. Dunque c'era un salto accanto a me. Istintivamente feci per spostarmi più in là, ma mi fermai in tempo. Dietro di me doveva esserci un tratto in pendenza, lo avvertivo dalla disposizione delle gambe. Anche la testa posava su un piano inclinato. Dovevo trovarmi su una cengia, o su un ponte, dentro il crepaccio. Non scivolavo, ma non sapevo come muovermi per portarmi in posizione sicura. Premetti il viso contro la neve, cercando di portar ordine nel mio cervello confuso. E ora, che fai, Joe?
(Presente anche su www.ciao.it)
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